Il web: informare per formare

Comprendere oggi la Shoah.

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    In ogni società, o meglio in ogni cultura, il lessico riflette gli interessi contingenti, che divengono poi interessi culturali.
    Ecco così che gli Eschimesi hanno quaranta parole per definire il bianco e gli uomini della foresta amazzonica ne hanno almeno altrettante per il verde.
    Per la loro cultura, per la loro stessa sopravvivenza, gli uomini hanno bisogno di conoscere esattamente il nome di ciascuna sfumatura di verde se sono nella foresta e di bianco se sono tra i ghiacci e la neve.

    Nel Talmud, massima fonte di sapere per gli ebrei, vi sono quaranta modi per definire una stessa parola, e la parola è «domanda».
    Attraverso il porre le domande si mette in gioco la stessa sopravvivenza culturale dell’ebreo.
    Il Talmud si apre con una domanda: «Da quando…?».
    In esso c’è un termine per definire la domanda facile e uno per quella difficile; uno per definire la domanda che si pone all’inizio di una frase e uno che già al
    suo interno pone un dubbio, una ipoteca sulla risposta.
    Sorprendentemente, non altrettanto importanti sono le risposte stesse.

    Le domande sono comprese nel seno stesso dell’ebraismo.
    Durante la cena pasquale ebraica, ci chiediamo: «Mà nishtanà ha-laila ha-zè?», «Che cosa c’è di diverso in questa notte rispetto a tutte le altre notti?».
    Forse anche Elie Wiesel nella sua sconvolgente opera dal titolo "La notte" in «quella» notte si poneva la stessa domanda.
    E lui alla domanda «Dove era Dio?» non ha risposto con le parole del rabbino «Dio è ovunque lo si faccia entrare», ma piuttosto con quelle raccolte dentro di sé.
    Di fronte a un bambino impiccato, che agonizzava a lungo, perché troppo leggero per morire rapidamente, alla domanda «Dov’è Dio, dov’è dunque Dio?» sentiva in sé una voce che rispondeva: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca».

    Nel Talmud si narra di un rabbino che non riesce a esalare l’ultimo respiro, perché i suoi affezionati allievi fuori dalla sua casa pregano intensamente per lui e distraggono la sua anima.
    La sua serva, rendendosi conto di quello che accade, con uno stratagemma distrae gli allievi, permettendo così al rabbino di esalare l’ultimo respiro.
    È scritto che così anche lei guadagnò un posto nel mondo a venire.
    In questo intervento si potranno trovare molte domande. Non per tutte ci sarà una risposta.

    A volte, invece, di risposte alla stessa domanda se ne possono trovare più di una. Ma non sempre starà a noi fornirle.
    D’altra parte nel Talmud apprendiamo che talvolta le questioni si risolvono con «Teiku» (acronimo di «Tishbi ietaretz kushiot ubeaiot», ossia «Tishbì (cioè il profeta Elia) risponderà alle domande e risolverà le controversie (nei tempi messianici)».

    Hillel, un grande Maestro dell’ebraismo, a un uomo che voleva imparare tutto sull’ebraismo stando su un piede solo, diede una lapidaria quanto illuminante risposta: «Ama il prossimo tuo come te stesso, tutto il resto è commento. E ora va’ e studia».

    Ma come studiare?
    Vorrei partire con una prima raccomandazione: nell’insegnare si dovrebbe diffidare delle mode; oggi parlare di Shoah è una moda, e quando questo argomento non sarà più una moda avrà un valore ancora maggiore continuare a trattarne.

    Iniziamo con un po’ di storia: è vero che i banchieri in Germania prima della Shoah erano per la gran parte ebrei?
    Io credo che mai come in questo caso la risposta debba essere: «E allora?»
    Intendo dire che nell’informare si deve sempre tener presente che si sta anche formando. E che alla risposta statistica deve seguire quella secca di cui sopra.

    Cioè: allora, se fosse stata ricca non "solo una parte" degli ebrei, se gli ebrei, invece, fossero stati "tutti" banchieri, questo giustificherebbe ciò che accadde in Europa a partire dagli anni trenta?
    Non bisogna cadere nella trappola del pregiudizio. Anzi, è bene ricordare la radice della parola pregiudizio: giudizio che precede la conoscenza.

    "Tollerare" è un altro termine di cui abbiamo tutti conoscenza e che apprezziamo. Ma nell’educare dobbiamo andare oltre, dobbiamo raccomandare e raccomandarci di sostituire il verbo «tollerare» con «capire» e «rispettare». Comprendere e rispettarsi a vicenda.

    Io credo che questa sia una delle chiavi per parlare di ebraismo e quindi di Shoah.
    Nella Bibbia l’imperativo zakhor, «ricorda», ricorre numerose volte, tanto da diventare un precetto. È doveroso quindi ricordare.
    Ma la Shoah è solo una parte di storia dell’ebraismo. Non si dovrebbe far conoscere l’ebraismo attraverso il prisma deformante della Shoah.
    Non si dovrebbe parlare di Shoah senza parlare della storia e della cultura ebraica.
    La storia della Shoah va di pari passo con lo studio della storia del popolo ebraico e con lo studio della cultura ebraica. Comprendere questo significherebbe perlomeno provare a restituire alle vittime la loro dignità; spesso l’immagine che si ha dell’ebreo è quella mediata dai ghetti nazisti e dai campi di sterminio. Compito della nostra generazione dovrebbe essere anche quello di contribuire a ristabilire la giusta visione, a riequilibrare il nostro difetto di percezione che consiste nel vedere la Storia – anche oggi, dopo 60 anni – attraverso le lenti di sei milioni di morti.
    La cultura ebraica è una cultura di vita, e che sceglie la vita.
    Dobbiamo tutti essere molto attenti e non fare della Shoah una religione, una nuova religione laica degli ebrei, ma anche dei non ebrei.
    Soprattutto nell’educare le giovani generazioni.

    Ma cosa è l’educazione secondo l’ebraismo?
    Secondo il midrash, il racconto che fa parte della tradizione ebraica, quando il bambino viene al mondo un angelo gli dà un buffetto sulla bocca e gli fa dimenticare tutta la Torà, l’insegnamento che aveva appreso durante i mesi della gravidanza.
    Sarà compito dei genitori fargliela tornare alla memoria gradualmente e con amore.
    Ma se, come è detto, «il mondo si regge sull’alito dei bambini che studiano», nell’educare il bambino si deve tenere conto anche delle sue attitudini, dei suoi gusti e talenti.
    Infatti la tradizione ebraica insegna a questo proposito: «Educa il bambino secondo la sua inclinazione».
    Nell’Haggadà – il testo che si legge durante la rituale cena pasquale ebraica – si legge di quattro figli, a ciascuno dei quali bisogna dare una risposta diversa: c’è il figlio sapiente, il figlio malvagio, il figlio semplice e infine il figlio che non sa fare domande.
    Proprio a quest’ultimo si deve cominciare a raccontare, a narrare. Informare per formare, anche quando sembrerebbe che l’alunno non sia in grado neanche di porre domande.

    Tra i diversi media utilizzabili per narrare, per informare, il web è probabilmente quello che si avvicina di più al linguaggio dei giovani, quello che aderisce meglio al concetto appena espresso di educare il giovane seguendo la sua inclinazione.
    I ragazzi e anche i bambini sembrano davvero essere una generazione nata con una tastiera come «naturale» prosecuzione della mano.
    Il linguaggio verbale dei giovani pare spesso sincopato come quello delle chat in rete. Apprendere dal web è per loro naturale. Il web viene usato con la stessa disinvoltura per scambiare informazioni o per prendere un appuntamento.
    Veicolare attraverso il web i contenuti che vogliamo proporre può senz’altro costituire una agevolazione nella trasmissione e quasi una garanzia che il messaggio arrivi.
    Il web può essere uno straordinario strumento di autoconsultazione e autoformazione. È un dovere del formatore educare all’autoformazione gli studenti, indirizzarli nella direzione dell’autoapprendimento perché sappiano orientarsi autonomamente, per apprendere nuove informazioni e competenze, per renderli in grado di gestire autonomamente e responsabilmente la propria ricerca.
    Guidarli in una ricerca di questo genere significa puntare sullo sviluppo di metodologie consone alle motivazioni, alle attitudini e anche agli interessi del singolo.

    Studiare, nella pratica ebraica e nel web, non significa conoscere in anticipo il risultato di una ricerca, e nemmeno conoscere quali strade si percorreranno, ma piuttosto cercare di comprendere gli spazi bianchi tra le lettere, spaziare nello spazio e nel ciberspazio.
    In ebraico la lettera Lamed sintetizza ed è alla base della radice della parola «studio».
    Essa è l’unica delle ventidue lettere che compongono l’alfabeto ebraico che si stagli «sopra le righe». Segno che per studiare si deve andare anche oltre i margini superiori.
    La Lamed è l’ultima lettera della Torah, e insieme alla prima, la Beth (la cui forma invece costringe a non spaziare, anzi ad andare avanti solo in una direzione), forma la parola "lev", «cuore».
    Un cuore pulsante, che si modella sulla sua concentrazione, ma anche sulla sua elevazione.
    Con il Talmud il popolo ebraico cessa di essere soltanto il popolo del libro, per farsi il popolo dell’interpretazione del libro.
    In una pagina di Talmud convivono e si confrontano diverse opinioni, nessuna delle quali può a priori prevalere sulle altre.
    I Maestri chiamano il Talmud Yam, «mare». Chi utilizza internet naviga in rete.
    Entrambi sono enormi «continenti fatti di mare», di materia fluida come l’acqua, al cui interno vivono miliardi di informazioni che spesso, però, tocca alla nostra intelligenza filtrare e interpretare.
    Il Talmud è composto di trattati, in ebraico il termine è massechet (al plurale massachtot), che letteralmente significa «trama», «tela», e anche il web è una tela.
    Così come il web, anche il Talmud può esser considerato come un enorme ipertesto.
    Gli argomenti trattati si collegano e concatenano gli uni agli altri; possono essere studiati all’interno di uno stesso brano, oppure affrontati in parallelo, per tema. Analogamente gli argomenti che compaiono in rete sono collegati attraversi link interni a cui di volta in volta si può far riferimento per approfondire un tema o per passare a un argomento attinente, o semplicemente che incuriosisce.
    Il Talmud propone un metodo analogo. Al suo interno si trovano all’improvviso frasi o situazioni che apparentemente hanno poco in comune con l’argomento in oggetto, ma che costituiscono stimolo e curiosità, e che inoltre servono come appiglio per la memorizzazione.
    Il Talmud e internet sono però in contrapposizione su quest’ultimo punto: il Talmud, oltre a essere interpretato, viene studiato a memoria.

    La rete è un contenitore enorme di memoria, e può sostituire la memoria umana. Ecco un altro punto centrale: su internet è frequente trovare notizie e informazioni false o distorte; è fondamentale vigilare sui contenuti, impedire che passi attraverso il web una memoria falsa o falsificata, in generale e naturalmente anche per ciò che attiene alla Shoah.

    Potremmo affermare con solo un pizzico di azzardo che almeno una parte della battaglia del Terzo Reich sia stata una battaglia contro la memoria.
    Lasciare una testimonianza duratura sarà l’evidenza che quella battaglia è stata persa.

    Heinrich Heine (spregiativamente chiamato dai suoi contemporanei tedeschi il «poeta circonciso») disse: «Quando si inizia col bruciare libri si finisce col bruciare uomini».
    Oggi molti ragazzi indossano tshirt dove compare questa frase. Segno che, almeno per loro, la lezione è stata appresa.
    Nella Bebelplatz di Berlino un monumento ricorda il rogo dei libri, preludio al genocidio delle donne e degli uomini.

    I documenti salvati sul web non possono essere bruciati.
    Dobbiamo però attentamente sorvegliare cosa conservare: come diceva Carlo Levi, «le parole sono pietre, qualche volta possono far male».
    E questo vale anche per le parole scritte e che si leggono sul web.
    La loro veridicità e attendibilità è la misura della vittoria della battaglia.
    Una informazione messa in rete, un qualsiasi documento, può essere paragonato al «viaggio di una scintilla». Mantenerla in vita, continuare a trasmetterla è nostra responsabilità.

    Utilizzare il web significa adeguare il messaggio al linguaggio dei loro utilizzatori: in gran parte i giovani.
    Si leggono, e spero si continuino sempre a leggere, libri e giornali, ma molto si legge anche sullo schermo del pc.
    C’è da tenere in considerazione l’attitudine di molti ragazzi, che preferiscono essere produttori piuttosto che consumatori di parole. Valga come esempio il dilagare dei blog.
    Anche di questo dobbiamo tener conto nel proporre la formazione attraverso il web.

    Auschwitz ha introdotto la parola "genocidio" nel nostro vocabolario.
    È nostro compito cercare di tradurre questo termine per i nostri giovani, «potabilizzarlo» per i nostri alunni.
    Adeguare, appunto, il messaggio al linguaggio degli utilizzatori.

    Scrive Annette Wieviorka: «Se Auschwitz è diventato la metonimìa del male assoluto, la memoria della Shoah è diventata in qualche modo il modello della costruzione della memoria, il paradigma a cui quasi ovunque si fa riferimento per analizzare il passato o per tentare di installare nel cuore stesso di un evento storico che si svolge sotto i nostri occhi […], che non è ancora divenuto storia, le basi del futuro racconto storico».
    Anche di questo dobbiamo tener conto nel pensare all’utilizzo del web.

    Scrive Georges Bensoussan in un saggio intitolato "L’eredità di Auschwitz. Come ricordare": «Per la memoria collettiva occidentale la Shoah è così diventata, negli ultimi vent’anni, un avvenimento centrale, che non cessa di mettere in discussione le basi della nostra modernità politica».
    Fornire gli strumenti per la comprensione del fenomeno significa informare per formare.

    L’universo concentrazionario è, dunque, un evento che si è rivelato fondamentale nel processo di comprensione della Storia.
    Auschwitz diviene il Novecento: il compendio perfetto di "barbarie dell’uomo moderno" e "raffinatezza della modernità tecnica".
    La raffinata tecnologia utilizzata negli strumenti di sterminio e la selvaggia, barbarica brutalità delle motivazioni dello sterminio e dei metodi utilizzati fanno di Auschwitz «il Novecento».

    Studiare Auschwitz, studiare il Novecento, è studiare la Storia.
    È studiare la genealogia della Shoah, il profondo dell’Europa stessa; perché anche e soprattutto nell’insegnare non dobbiamo dimenticare che la Shoah è figlia dell’Europa.

    Ma se è vero che oggi per l’educatore insegnare la Storia significa vieppiù far vedere, mostrare la Storia, mostrare il documento, ancora meglio è far incontrare il protagonista della Storia.
    E da qui il moltiplicarsi degli incontri che vedono gli ultimi sopravvissuti in una angosciosa e forse, al contempo, liberatoria testimonianza, in particolare in Europa, intorno al 27 gennaio.
    Da quando è stato istituito per legge di Stato il Giorno della Memoria, in questo periodo si sono moltiplicate, in particolare nelle scuole, le celebrazioni, tanto da far diventare tale data un vero appuntamento con la Storia.
    Tra le molteplici e diversificate attività che gli insegnanti organizzano in questa occasione, grande rilievo hanno gli incontri con i testimoni, incontri che spesso divengono per i testimoni stessi autentici tour de force.

    È così che Auschwitz, da luogo assolutamente compreso in una spazialità e in una temporalità precisa, produce una paralisi nel tempo e nello spazio non solo in coloro che erano lì, ma anche in coloro che hanno appreso e che si sono fatti essi stessi «candele della memoria», accogliendo sulle loro spalle l’eredità di Auschwitz: sono i ragazzi, che, assistendo alle testimonianze dei sopravvissuti, tornano a casa con un segno sull’anima.

    Ma questo può essere anche molto rischioso. Va ricordato, sempre e comunque, che i cosiddetti «testimoni dei testimoni» non sono testimoni (mi si perdoni il bisticcio di parole).

    C’è un testimone, a cui io sono particolarmente legata, che ha raccontato come, per valutare un vocabolario o una enciclopedia, consulti il lemma "Auschwitz".
    Da quanto spazio viene dedicato al lemma e naturalmente da come esso viene trattato, valuta l’intera enciclopedia.
    A un giornalista, che gli rivolse una domanda dicendo: «Lei che è uscito da Auschwitz…», non fece neanche terminare la frase, rispondendo: «Chi è stato ad Auschwitz non ne è mai uscito».
    Ecco, io credo che tradurre per i giovani la parola Auschwitz significhi anche proporre testimonianze di questo tipo. Se possibile anche attraverso il web.

    La nostra è una «società della conoscenza»: all’interno di essa i processi, le tecniche e le modalità di comunicazione e di acquisizione di informazioni e di conoscenze sono ormai determinanti nel processo di crescita culturale, sia individuale che del gruppo nel suo insieme.

    In questo senso il web è una fonte davvero preziosa.
    Chi mette il proprio lavoro in rete è come un insegnante o un educatore che spende parole, ma non sa quanto, quando, se, e, spesso, neanche a chi esse [quelle parole] arriveranno.
    La rete opera così. Tutti possono trarne beneficio. E questo può essere anche un grande svantaggio: il target, il fruitore, non può essere preventivamente determinato.

    Alcuni siti sono magari rivolti solo a specialisti, oppure, al contrario, sono talmente divulgativi che la loro consultazione può rivelarsi una perdita di tempo. Inoltre, nell’usare il web si utilizzano fonti messe in rete da altri e delle quali spesso non si può verificare la veridicità.
    La scelta dei siti da proporre agli studenti deve essere molto attenta e accurata. In rete il rischio di incappare in siti non adeguati o addirittura presentanti informazioni o dati falsi è molto serio.
    Infatti il basso costo e la facilità di realizzazione di un qualunque sito corrispondono in modo direttamente proporzionale al numero di siti «specialistici» che si trovano oggi on line e [in modo] inversamente proporzionale alla qualità.

    E ancora: non sempre la qualità dei contenuti corrisponde all’accuratezza grafica che attrae il navigatore.
    Spesso incappiamo in siti accuratissimi e graficamente accattivanti, ma che, spesso proprio come la pubblicità, non mantengono le promesse che fanno, oppure siti che, al contrario, si fanno poco guardare a causa della loro spartanità, ma ci offrono spunti e documenti di tutto rispetto.

    Quando abbiamo a che fare con un libro, un solo colpo d’occhio ci fa distinguere tra una versione filologicamente impeccabile di un classico e un romanzo da bancarella.
    In rete questo vantaggio non è dato.
    Gli educatori sanno bene che le nuove tecnologie condizionano i giovani nei loro modi e nel loro pensiero: proprio per questo debbono farsi garanti delle proposte, in particolare quando debbono guidare lo studente nel mare magnum del web.
    E comunque è indispensabile sottolineare che lo studio fatto attraverso il web va incasellato all’interno del percorso di studio.

    Per usare in modo proficuo il web si dovrebbe essere in grado di guidare la ricerca, indirizzandola in particolare verso la storiografia, la memorialistica e i documenti (fotografie, disegni, documenti d’archivio ecc.).
    Inoltre, al di là della intenzionalità dei curatori del sito, troppo spesso i siti di Shoah propongono l’orrore dei racconti e soprattutto delle immagini come chiave per catturare il navigatore.
    Se digitiamo la parola Shoah su Google, il motore di ricerca attualmente più usato, si aprono come in un abisso 736 000 pagine in italiano e 4 160 000 totali. Quali può scegliere l’insegnante?

    Sira Fatucci

    Per ulteriori informazioni consultare il sito da cui è stato tratto l'articolo.
    Fonte: ucei.it
     
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